Opus #15

Opus #15

Un'opera tra sacro e profano, che gioca con archetipi e ironia.

Ah, ecco qui un'opera di Uodi, un pezzo che sembra saltar fuori da un sogno urbano, intriso di quella stessa energia irriverente che pervade il mondo dei writer e degli skater.

 Questo Buddha in polka dots, esagerato e quasi grottesco, non ha nulla di pacifico o illuminato nel senso tradizionale. Piuttosto, sembra voler sfidare l’idea stessa di calma interiore, con quegli occhi pesanti e un'aria che oscilla tra il giocoso e il sarcastico.

Le linee dure, quasi da graffiti, si fondono con una tavolozza infantile e sfacciata, come se stesse dicendo: "Prenditi pure sul serio, ma sappi che alla fine tutto è un gioco."

L'uso di quei colori, quel verde accesso sui pois, è come un pugno nell'occhio: volutamente fastidioso, volutamente scomodo.

C’è anche una vena di ribellione nei fulmini che appaiono sopra la testa del Buddha, come a suggerire che l'illuminazione è accompagnata da una scarica elettrica, un cortocircuito spirituale.

L’opera, con quel suo mix di simbolismo e humor dissacrante, non si limita a osservare la spiritualità, ma la ridefinisce, la graffia, la sporca con le mani sporche di vernice di uno che la sa lunga sul caos della vita urbana.

Uno che ha visto i Buddha sugli adesivi per strada più spesso che nei templi.

Uodi, nascosto dietro il suo anonimato, sembra voler dire: "Non c'è nulla di sacro qui, ma forse è proprio per questo che dovresti fermarti a guardare."