Opus #6

Opus #6

Un intreccio di linee minimaliste, simbolismo grottesco e ironia leggera in una danza bianca e nera che sfida logica e gravità.

Ecco un altro pezzo di Uodi, stavolta monocromatico, ma non meno pungente. Questo volto distorto e scomposto, che sembra in bilico tra un urlo e un sorriso, è un perfetto esempio del caos calcolato che Uodi porta dalla strada.

È come se un writer avesse catturato su una tela quel momento in cui la mente esplode, cercando di digerire il mondo, ma finendo per masticare sé stessa.

Le proporzioni stravolte, il braccio che si trasforma in un nodo contorto, le gocce che cadono come sudore di angoscia o forse di estasi – ogni elemento sembra voler raccontare una storia assurda, ma lo fa con un sorriso beffardo.

Questo personaggio, se lo si può chiamare tale, è più un amalgama di ciò che resta quando la realtà viene stiracchiata fino al punto di rottura.

Il bianco e nero, crudo e diretto, non lascia spazio ai fronzoli del colore, è una dichiarazione senza compromessi: "Questo è tutto quello che sei, nudo e distorto come lo specchio della tua coscienza ti restituisce."

E le piccole icone sparse intorno – il vaso, il fiore, la scarpa – sono come note a margine della follia. Ogni dettaglio aggiunge una piccola beffa alla serietà del tutto.

Uodi, sempre lui, con questo pezzo sembra dirci: "Non cercare il senso. Goditi il disordine."

Una filosofia che, nonostante il sarcasmo e l'ironia, sembra profondamente connessa al mondo di chi vive per strada, dove l’ordine è un concetto relativo e la sopravvivenza dipende dalla tua capacità di adattarti al caos.